IMPATTO, LA TERZA VIA DI UN CAPITALISMO POSSIBILE CHE SUPERI RISCHIO E PROFITTO

Coltivo il progetto di rovesciare il Sacro Graal che da decenni ha orientato un capitalismo per il quale due sole dimensioni contavano: il rischio, da limitare al massimo, e il profitto da massimizzare, costi quel che costi. Un orizzonte oggi insostenibile e nichilistico che può, però, essere rovesciato in un capitalismo “3D”, che in ogni latitudine e in ogni mercato ottimizzi invece che due, tre fattori: rischio, rendimento e impatto. Impatto è la parola chiave, che introduce nel linguaggio dell’economia e della finanza la cura delle comunità, delle relazioni, dell’ambiente degli ecosistemi.

Il mantra a cui ancorarsi sono gli investimenti ad impatto, a tre dimensioni, che intenzionalmente colleghino il rischio, e soprattutto il rendimento, alla risoluzione dei problemi ambientali e sociali del nostro tempo. Annodando strutturalmente l’impatto al profitto sovvertendone la tirannia. Perché ponendo l’impatto saldamente al suo fianco, il profitto si tiene sotto controllo.

Quindi è necessario invertire la rotta di un capitalismo estrattivo, che ancora troppo spesso sfrutta il pianeta e le persone, e fare invece leva sulle sue migliori e libere energie creative e innovative. D’altronde, sarà difficile raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, di pace sociale, di stabilità e anche di rafforzamento delle nostre democrazie se non sapremo riconoscere, incoraggiare e misurare a pieno il ruolo di quest’altra finanza, di questi altri investimenti, di questi altri imprenditori. Sono loro che possono collaborare a colmare quel gap di finanziamento degli Obiettivi di Sostenibilità, stimato dall’ONU pari a 6mila miliardi di dollari all’anno.

Per questo bisogna accostare finanza ad economia sociale, uscendo dalla comfort zone di confini rigidi ed entrando in quella dell’innovazione ibrida tra primo, secondo e terzo settore. E bisogna chiedere regole nuove per il mercato dei capitali quando è ancora di moda il laissez faire di un turbo capitalismo finanziario (che si è già schiantato nel 2008). Non ci convince un ambientalismo romantico, anche se empatizziamo con i ragazzi dei Friday for Future. Ma non possiamo lasciarli soli nella trasformazione dei modelli di produzione e distribuzione della ricchezza. Siamo lontani dalla logica deresponsabilizzante del “deve fare tutto lo Stato”, ma anche da chi parla di “scelta ideologica” per negare l’urgenza dei problemi. Non serve l’adesivo green come good label, né è possibile più accettare che i capitali continuino a viaggiare e circolare obbedendo ancora a regole globali formulate nel secondo dopoguerra: questo sì è un grande tema di rinegoziazione globale.

Lo strumento con cui lavorare è la valutazione e la monetizzazione degli impatti: questa è la killer application del nuovo capitalismo. La pietra filosofale e insieme contabile per riorientare le preferenze del mercato.

Ci interessa poco chi indica fuori di sé le colpe. Cerchiamo piuttosto i protagonisti orientati senza pigrizia al cambiamento, all’inversione di rotta, alla generazione di valore. La rivoluzione della impact economy è una rivoluzione gentile, aggettivo non accessorio. Con l’energia del denaro e della finanza è messa al servizio della ricerca di soluzioni per la crisi sindemica (energetica, ambientale, sociale, umana, geopolitica, ma anche culturale e spirituale) che stiamo vivendo. Ma la domanda successiva è: saprà l’Europa tenere questa rotta, perfezionarla, respingere la retorica della conservazione? Fino ad oggi l’Europa ha guidato con l’esempio. Ma basterà l’armatura regolatoria europea? Non ne sono sicura. Saranno necessari investimenti pubblici e incentivi. Un piano IRA europeo. Oltre al bastone, un po’ di carota.

Quanto all’Italia, si tratta di adottare soluzioni già sperimentate in altri paesi: introdurre l’obbligatorietà nei cda nelle grandi società per azioni del comitato di sostenibilità, distinto da quello rischi. Inutile parlare di finanza o impresa etica senza trasformare i meccanismi di valutazione e misurazione del valore. Inutile continuare a dividere il mondo tra profit e non profit quando in mezzo c’è tanta sperimentazione ibrida. Quando le non profit possono trasformarsi in imprese se trovano capitali pazienti, e le profit possono riallineare le loro strategie nell’interesse non solo degli azionisti, ma anche di tutta la comunità di stakeholders. È questo che cambia il capitalismo. È in questo spazio che si misura il ruolo di policy maker innovativi che sappiano fissare obiettivi ambiziosi per i quali non bastano i bilanci di sostenibilità, che sono troppo spesso pamphlet di marketing, che raramente catturano trasformazioni vere e spesso mancano di chiarezza e soprattutto di confrontabilità.

In una parola, non aiutano a prendere decisioni. Altra cosa è misurare il ritorno sociale di un investimento o utilizzare modelli sofisticati di gestione. Gestione ad impatto, appunto.

Misurare l’impatto in termini monetari è fondamentale: se misuri gestisci e se gestisci puoi cambiare. Ecco la freccia che porta dalla finanza estrattiva e speculativa ad una finanza generativa, dal guadagno per sé al guadagno per le comunità, in un’ottica di trasformazione e redistribuzione sociale.

Arrivare alla misurazione monetaria dell’impatto significa incidere anche sul valore azionario, muovendo dalla performance social green. Insomma, entrare nel cuore del capitalismo.

Ma che cos’è un investimento a impatto e che cosa no? Non è un investimento ad impatto se lascia invariate le emissioni la CO2 o se non innalza i livelli di remunerazione del lavoro. Non è un investimento ad impatto se sfrutta irregolari (che poi muoiono sulle impalcature dei cantieri). Sono molti invece gli esempi in Europa e nel mondo di Fondi Impact finalizzati a ridurre il numero di ragazzi che non studiano e non lavorano (NEET), che rispondono a nuovi bisogni di social housing, che sostengono le più avanzate tecnologie biomedicali offrendole a tariffe accessibili, che aumentano il lavoro femminile e incoraggiano la diversità. Investimenti che allargano il perimetro del welfare, dell’assistenza domiciliare, della cura degli anziani e dei minori o che hanno obiettivi intenzionali di inserimento attivo nel mondo del lavoro di migranti e rifugiati. È uno scandalo, per esempio, che il nostro paese non destini un euro alle politiche attive per il loro reinserimento.

E, naturalmente, gli investimenti che accelerano la transizione e il risparmio energetico, la decarbonizzazione. Mentre mi pare una buona cosa l’approvazione da parte del governo di “Transizione 5.0”, crediti di imposta per sostenere il risparmio energetico delle imprese.

Poi c’è la rigenerazione urbana delle città che sono una palestra strategica per sperimentare alleanze pubblico/private in un’ottica impact-oriented e di generatività sociale contro ogni logica speculativa. I luoghi dell’abitare come ambiti di sperimentazione preziosi per integrare, per identificare politiche innovative di rigenerazione nei tempi dell’inverno demografico basate per esempio sui bisogni dei più piccoli, dei più anziani, con la nuova sfida della longevità e di un nuovo welfare a misura di squilibrio demografico. Le città producono l’80% del Pil globale, emettono il 75% delle emissioni e ospitano il 30% dei “perdenti della globalizzazione”. Ospitano cultura e creatività, ma tanta infelicità e rabbia. Sono spazi di convivenza sociale e conflitto. In tutto il mondo nelle città si stanno ingegnerizzando accordi finanziari, contract-a-impact-social, come li chiamano in Francia, per far fronte alle emergenze abitative, educative, culturali, climatiche delle città.

I contratti Pay By Result rafforzano la triangolazione virtuosa tra città, terzo settore e privato. Ne sono nati circa 200 negli ultimi anni nel mondo per ridurre le recidive nelle carceri, prevenire il drop out scolastico, per aumentare i servizi per l’infanzia, per prevenire il diabete in popolazioni a rischio. La logica pay by result introduce nella PA un elemento prezioso di efficienza (la spesa viene erogata solo a risultati raggiunti) e spinge il secondo settore ad investire nelle abilità trasformative, innovative e inclusive del terzo, assumendosi parte del rischio. In Italia questi modelli non decollano ancora. Le amministrazioni fanno fatica ad accantonare risorse con cui rimborsare l’investimento e, spesso, non hanno le abilità e le competenze necessarie per gestire la complessità di questa triangolazione.

Si tratta quindi di sviluppare competenze e capacità della PA per integrare la misurazione e gestione degli impatti nelle strategie e nei processi decisionali; istituire un fondo di garanzia per gli investitori, per sostenere investimenti privati verso progetti ad impatto che prevedano poi il rimborso del capitale in base ai risultati ottenuti. Un fondo che, di fatto, sarebbe finalizzato ad un efficientamento della spesa, alla tanto evocata “riduzione degli sprechi”.

Siamo in uno scenario globale che cambia giorno dopo giorno. Secondo alcuni, sarà la rivoluzione digitale e anche l’Intelligenza Artificiale ad accelerare la rivoluzione impact. Sappiamo dove può arrivare l’Intelligenza Artificiale, oggi.

Ma non sappiamo come si svilupperà nei prossimi cinque anni. Tuttavia, non vi è dubbio che, se la gestione coordinata dei dati può migliorare moltissimo la pianificazione degli interventi pubblici (evidence based policies), essa può anche essere un formidabile moltiplicatore di finanza ed investimenti ad impatto.

Come diceva San Francesco: cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile, e all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile.

2024-04-19T15:26:25Z dg43tfdfdgfd