IMPRESE IN CRISI DI VOCAZIONI

Quando il Paese reale manda segnali precisi, non conviene sottovalutarli. In genere sono trend che si possono far risalire a nuove convinzioni culturali oppure a stati di insoddisfazione. Il che diventa preoccupante quando tali segnali impattano sull'economia reale. Mi riferisco a un dato che deve far riflettere. E cioè al fatto che a cavallo del 2010 in Italia avevano aperto oltre 400mila nuove imprese; l'anno passato poco più di 300mila. Dunque, una contrazione pari al 25%. In appena tredici anni. I numeri fanno parte del report Gem-Global entrepreneurship monitor (cui hanno fornito un significato contributo Universitas Mercatorum e Politecnica delle Marche).

Mi auguro che tale fotografia abbia richiamato l'attenzione ai più diversi livelli. Perché si tratta di un vero crollo, una ferita per il nostro motore produttivo. Comprendere le cause di questo deficit è centrale. Interrogarsi sui motivi per cui gli italiani ritengono sempre meno avvincente mettersi in gioco per avviare una propria attività è un impegno fondamentale. Sottovalutare tale fenomeno sarebbe miope, ma attribuire tutto all'inverno demografico rischia di essere un'interpretazione parziale. Il rapporto Gem invita a guardare in altre direzioni. In modo particolare alla questione assai delicata della formazione.

Nelle nostre scuole la cultura del fare impresa non è materia presa granché in considerazione. E se i giovani non vengono stimolati alla sfida adulta del mettersi in proprio con l'adeguata preparazione e con l'entusiasmo che mai deve fare difetto, ecco allora spiegato il progressivo disinteresse. Perciò oggi è decisivo attivarsi per accendere di nuovo la voglia di mettersi in proprio. Questa è l'impresa più urgente.

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