L'ASTENSIONE DEL PD SUL NUOVO PATTO UE, FINALMENTE UN'INVERSIONE DI ROTTA

L’inerzia intellettuale e la disattenzione al merito per vocazione professionale hanno portato i nostri analisti politici a liquidare come populista, irresponsabile, immatura la posizione espressa dai partiti italiani e, segnatamente, dal Pd nel voto al Parlamento europeo sulle revisioni al Patto di Stabilità e Crescita. Il bersaglio primo è stato il Pd di Elly Schlein. Quoque tu, Pd, il più osservante seguace della religione del vincolo esterno, in particolare dell’europeismo liberista. Quoque tu, Pd, casa del commissario Gentiloni, autore dell’impianto delle revisioni. 

Se invece l’astensione del Pd indicasse un’iniziale maturazione di autonomia culturale e consapevolezza del cambio di stagione?  Gli aggiustamenti apportati alle norme europee di finanza pubblica, sia nella versione iniziale licenziata dalla Commissione, sia nella versione “compromessa” dal Consiglio europeo, sono sostanzialmente irrilevanti o finanche pericolosi a causa della maggiore arbitrarietà e opacità lasciata ai negoziati “tecnici”. La strombazzata maggiore ownership non esiste, mentre la celebrata conquista di flessibilità era, di fatto, già goduta grazie alle deroghe -consentite dal richiamo ai “relevant factors”- alle regole "stupide" della versione appena archiviata. Lo hanno rilevato personalità insospettabili di populismo e sovranismo, le scomuniche di moda, come Enzo Moavero, Lorenzo Bini Smaghi, Veronica De Romanis, soltanto per ricordarne alcuni. Si parva licet, ne abbiamo scritto anche noi qui. 

L’irrilevanza delle modifiche approvate a Strasburgo ieri non è peccato veniale, ma mortale: soffoca le economie lasciare sostanzialmente invariate regole di finanza pubblica orientate al paraggio o al surplus di bilancio in una fase di elevati tassi di interesse e di debiti pubblici gonfiati dalle misure anti-Covid e dagli interventi di attenuazione degli effetti della guerra in Ucraina. Il “debito buono” accumulato nel triennio 2020-2022 si sarebbe dovuto sterilizzare, proprio come propone ora, con comprensibile ritardo dato il suo background ideologico, anche Francesco Giavazzi. Al fine di “liberare la Bce dai titoli che la banca ha acquistato fra il 2014 e il 2022 … Si potrebbe cominciare costruendo un’Agenzia europea del debito e spostandovi i titoli oggi posseduti dalla Bce, lasciando ovviamente in capo ai singoli Paesi l’onere di pagarne gli interessi” (domenica scorsa su Il Corriere della Sera). Alcuni lo proposero a caldo (il sottoscritto qui su HP). Un contenuto di tale portata avrebbe meritato il titolo di riforma del Patto di Stabilità e Crescita adeguata alla fase. Non è stata neanche tentata dai “riformisti”. Ma senza misure di finanza pubblica straordinarie, da economia di guerra, è impossibile far fronte agli ingentissimi aumenti di spesa previsti per finanziare la conversione ecologica, la transizione digitale, la difesa, la ricostruzione dell’Ucraina, la cooperazione allo sviluppo dell’Africa. Non è ancora chiaro? 

C’è una virata ideologica in corso dalle parti delle classi dirigenti protagoniste della lunga e insostenibile stagione neo-liberista. Ne è principale interprete europeo Mario Draghi, con audacia intellettuale e morale (sul terreno politico, i moralisti lo etichetterebbero come trasformismo). Prima, a febbraio scorso, a Washington per ricevere il premio Paul Volcker dalla National Association for Business Economics, ha rotto il tabù della separazione tra politica monetaria e politica di bilancio inciso nella ‘sua’ Francoforte. 

Qualche giorno fa, in Belgio, alla Conferenza sul “pilastro sociale” dell’Ue, è andato oltre. Di fronte ai vertici dei sindacati europei, ha compiuto un autodafé: ha infranto il tabù del primato del mercato generatore di benessere condiviso, il mantra degli ultimi decenni. In riferimento all’Ue, ha fatto un’autocritica pesantissima: “Abbiamo perseguito una strategia deliberata [corsivo mio] volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale. … Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi. Ma ora il mondo sta cambiando …”. 

Anche il prudentissimo e ultra-ortodosso Enrico Letta, ha dovuto prendere atto nel passaggio di fase. Nel suo Rapporto presentato la settimana scorsa al Consiglio europeo, in radicale contraddizione con la confessione dell’ex Presidente della Bce, celebra con entusiasmo ideologico i presunti successi del mercato unico, ma nei capitoli tecnici, a seguito della esaltata introduzione, viene documentato il contrario. In particolare, viene ricostruito che il presupposto per un decente funzionamento della osannata concorrenza, il famoso level playing field insegnato dai manuali di Economia 1, non c’è, non c’è mai stato, in particolare è stato radicalmente negato dal 2004, con l’ingresso nell’Unione di una decina di Stati a tassazione minima, welfare povero e condizioni misere del lavoro. Insomma, il nostro celebrato mercato è stato ed è fattore di dumping fiscale, sociale e salariale, quindi causa primaria dell’allargamento delle disuguaglianze. Ha riprodotto, in forma acuta, le dinamiche di quella globalizzazione ora denunciata da tutti.

In conclusione, è la realtà, è l’insostenibilità dell’impianto ordo-liberista, sono le classi medie spiaggiate a motivare la necessità della svolta. Non per buonismo, ma per istinto di sopravvivenza, di fronte all’avanzata dei “barbari”, la tecnocrazia più intelligente prescrive inversioni di rotta. Dall’altra parte dell’Atlantico, i democratici alla Casa Bianca, da tempo, hanno archiviato il Washington consensus. Finalmente, c’è vita a sinistra anche da noi.

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