«LE CHIESE SONO UN PATRIMONIO DI TUTTI: PER QUESTO INVESTIAMO SUI RESTAURI»

Oggi, a Bologna, il presidente della Cei, Matteo Zuppi, e il presidente di Acri, Francesco Profumo, presenteranno i risultati di un progetto pluriennale di studio sui Beni Culturali Ecclesiastici, raccolto in due volumi editi da Il Mulino. Il lavoro testimonia la necessità di un maggior coordinamento tra autorità statali ed ecclesiastiche in merito alle urgenze di conservazione e valorizzazione del vasto patrimonio culturale della Chiesa, mettendo in luce alcune buone pratiche realizzate dalle Fondazioni bancarie. Profumo illustra il progetto in quest’intervista.

L’Italia conta quasi cinquemila monumenti, musei e gallerie che custodiscono l’identità nazionale. Cosa fanno le fondazioni bancarie per difendere questo patrimonio?

Hanno una grande attenzione fin dalla loro nascita – trent’anni fa – a questo tema e contribuiscono perché credono che l’arte e la cultura non siano solo agenti di sviluppo del territorio ma costituiscano dei beni materiali e immateriali cui tutti debbono avere accesso. Ricordo che negli ultimi dieci anni abbiamo investito oltre 750 milioni di euro in 15mila interventi che hanno migliorato l’accessibilità ai beni culturali, realizzando importanti azioni di recupero e valorizzazione.

Con il terremoto dell’Aquila, e prima ancora con quello delle Marche, quindi, drammaticamente, con il sisma di Amatrice, abbiamo sperimentato la fragilità dei beni culturali ecclesiastici. Che parte hanno le testimonianze storico-artistiche della Chiesa nell’attività di conservazione e valorizzazione finanziata dalle fondazioni bancarie?

Gran parte degli interventi che sosteniamo riguardano proprio i beni culturali ecclesiastici, che da sempre caratterizzano i territori del nostro Paese: parlo di chiese e santuari, cammini e cimiteri. Spesso sono dei grandi capolavori dell’umanità.

Solitamente si pensa che questi interventi riguardino solo le chiese ma nella realtà esiste un patrimonio archivistico e di oggetti sacri immenso. Vi occupate anche di quello?

Certo. Le fondazioni di origine bancaria sostengono anche iniziative di recupero e conservazione di archivi e immagini sacre o oggetti liturgici, che raccontano la storia del nostro Paese. Dunque, è importante custodirli e valorizzarli, renderli accessibili a tutti, studiosi e persone comuni. Le nuove tecnologie aiutano a creare questa dimensione allargata.

Taluni pensano che le chiese le debba riparare la Chiesa. Perché finanziate questi interventi?

Noi siamo convinti che Chiesa e Ordini religiosi siano proprietari non esclusivi dei BCE: li hanno ereditati e ne hanno la responsabilità ma questi beni continuano ad appartenere alla comunità, a quella cristiana e a quella umana. Lo dice la Convenzione di Faro con il concetto di comunità patrimoniale. Pertanto, manutenere e rendere fruibile questi beni non può essere appannaggio esclusivo di qualcuno ed infatti esiste un vasto ecosistema di attori: la Cei, il ministero, le imprese, il terzo settore e le fondazioni di origine bancaria. Mettere in rete questi attori consentirà di fare la differenza.

Esiste una metodologia per recuperare un bene come questi?

Sul tema delle buone pratiche per recuperare un bene culturale ecclesiastico abbiamo avviato un progetto ad hoc che lo presenteremo al presidente della Cei, insieme ai due volumi editi da Mulino che descrivono quest’attività. Dal lavoro fatto in questi anni, è emerso che oltre all’importanza di creare delle reti territoriali è fondamentale promuovere la cultura della conservazione programmata, superando la logica emergenziale degli interventi a chiamata; occorre passare a una visione di lungo periodo, consolidando le competenze dei territori con attività continuative e sostenibili di conservazione e valorizzazione.

Avete un’idea precisa di quanti beni ecclesiastici necessitino di intervento?

Quello dei dati è un tema su cui è necessario riflettere, visto che in Italia non ci sono specifici dati quantitativi. La Cei e le diocesi italiane hanno avviato un importante censimento, primo passo, bisogna proseguire.

Perché finanziate molti restauri e meno operazioni di valorizzazione?

Perché c’è più domanda. Però per sanare questo squilibrio abbiamo iniziato a inserire iniziative di valorizzazione tra le condizioni per accedere alle risorse dei restauri e stiamo costruendo delle procedure che prevedano prima di tutto la raccolta delle informazioni preliminari - compresa la sostenibilità di lungo periodo dell’intervento - e il coinvolgimento delle comunità.

Il Pnrr è una sfida anche in questo campo?

Una grande sfida, anche se al momento è tutto potenziale e dobbiamo capire come tradurre titoli in cantieri: riteniamo che si debba puntare sull’empowerment delle organizzazioni che se ne occupano. Noi possiamo rendere le reti territoriali capaci di progettare e accedere a queste come ad altre opportunità. Questo è il ruolo delle fondazioni che infatti finanziano processi piuttosto che progetti e creano sinergie.

Quali sono le criticità che avete incontrato in questi anni nell’intervenire sui beni ecclesiastici?

Dallo studio Acri emergono le seguenti: 1) un sistema normativo complesso e lacunoso; 2) la mancanza di un quadro conoscitivo completo; 3) l’assenza di linee guida unitarie sulla metodologia della conservazione. Queste criticità, solitamente, comportano la difficoltà di individuare le gerarchie di priorità e implicano il rischio di interventi singoli e frammentari, che non riescono a inserirsi nei circuiti turistici, ad esempio.

Quindi, cosa fare?

Seguire queste direttrici: passare dalla logica dell’emergenza a quella della pianificazione puntando sulla conservazione programmata e sulla capacity building dei beneficiari, che vanno accompagnati; coinvolgere il terzo settore nella valorizzazione; costruire delle alleanze territoriali vaste, in grado di coinvolgere diversi attori e mettere in rete i beni recuperati; fare chiarezza sulla cornice normativa, che permetta di fare un salto di qualità nella conservazione e valorizzazione di quello che è un asset importante per l’Italia.

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