COSA C’è SOTTO IL BEL VESTITO DEL PIANO MATTEI, IL RIFLESSO COLONIALISTA

Anche dopo il secondo appuntamento della cabina di regia sul piano Mattei, la campagna africana del governo Meloni si potrebbe definire solo di “rebranding”, come si dice in gergo quando si vuole rilanciare un prodotto sul mercato che esiste già, come se fosse nuovo. Per il momento l’unica genialata continua ad apparire l’idea di mettere la politica italiana in Africa sotto un cappello che viene definito “piano Mattei”, visto che il ricordo del fondatore dell’Eni è forte e indelebile nel Paese e suscita immediatamente un sentimento di simpatia. La conferma che ancora si punta sul titolo e poco al tema, è stata la presenza alla riunione della stessa famiglia Mattei, coinvolta nell’operazione per rappresentare “fisicamente” il simbolo evocativo del piano.

Anche se i progetti – anzi i “pilastri” come vengono definiti con un’altra felicità lessicale – stavolta sono apparsi più chiari, sebbene intuiti fin dal momento in cui, appena nominata, la premier lanciò la “grande sfida strategica italiana”. Gli scopi principali del governo sono sempre due: primo, imbrigliare l’immigrazione (e si era capito nonostante il titolo evocativo del piano); e secondo, procedere sulla strada dell’approvvigionamento energetico (e questo proprio per il titolo evocativo del piano).

Il primo obiettivo è una versione più elegante dell’“aiutiamoli a casa loro”. Perché, come sostengono a palazzo Chigi, l’obiettivo è quello di “stabilizzare economicamente, socialmente e politicamente i Paesi africani per contrastare l’immigrazione”. In che maniera? Con progetti che aprano industrie, costruiscano strade e ospedali, formino giovani africani in nuove scuole e università. Tenendo appunto presenti i “6 pilastri” dell’operazione: istruzione e formazione; agricoltura e lotta alla malnutrizione; rafforzamenti dei sistemi sanitari; energia; acqua; infrastrutture.

Niente da eccepire: sarebbe magnifico se i 30 milioni di africani che arrivano ogni anno sul mercato del lavoro trovassero sistemazione “a casa loro” appunto, e non cercassero con tutti i mezzi, compresi quelli che mettono a rischio la vita, per raggiungere l’Europa e trovare un modo di sopravvivere. Solo che questo non è né può essere l’obiettivo realizzabile da un unico Paese e da un unico Piano. Potrebbe essere un traguardo verosimile se tutta l’Europa volesse perseguire lo scopo e si mettesse a lavorare in maniera ordinata e coordinata. Ma questo punto non è al momento all’ordine del giorno. E quindi che cosa può produrre il piano Mattei per tenere “a casa loro” gli africani? Niente, o briciole. Come è sempre stato ogni volta che ci occupiamo di Africa da soli.

Intanto, piano Mattei o meno, con i mezzi economici che il governo ha messo a disposizione si riuscirà a fare poco più di quello che si è sempre fatto, nessuna “svolta storica”, nessun cambiamento epocale. Gli stanziamenti messi a disposizione equivalgono a cinque miliardi e mezzo e non si tratta di soldi aggiuntivi nel bilancio. Tre miliardi provengono dal fondo per il clima messi da parte da Draghi per finanziare le opere di contrasto ai cambiamenti climatici; e gli altri due e mezzo sono gli stessi già stanziati per la cooperazione africana. Certo, i soldi del clima si aggiungono a quelli della cooperazione che già erano stati stanziati, ma poi bisognerà rimetterli al loro posto visto che servono ad altro. Insomma poca roba.

Questo detto senza sottovalutazione del ruolo che ha avuto il nostro Paese nel continente africano. Non partiamo da zero, in Africa siamo fra i primi al mondo per attivismo e attività, e non solo nei nove Paesi nei quali, in questi giorni, si stanno avvicendando missioni su missioni per avviare progetti più o meno pilota. L’interscambio esiste da tempo sia nei Paesi citati dal piano, per esempio in Etiopia e in Kenya, dove gli accordi di cooperazione sono storici; ma anche in altri Paesi, come la Somalia, che stavolta non è presa in considerazione.

Missioni religiose, scuole, università, fondazioni, ospedali, imprese, cooperazione: in Africa l’Italia è sempre stata presente. E mai in maniera “predatoria”, come si vorrebbe far intendere spingendo sull’iperbole del cambiamento epocale.

Allora, sul serio, sotto al bel vestito “Mattei” non c’è nulla? No, sarebbe ingeneroso affermarlo. Una novità piuttosto importante c’è ed è che ora tutte le attività italiane in Africa si vorrebbero contenute dentro il piano, sistemandole in maniera non dispersiva e guidate da una regia. Una decisione buona poiché è vero, come ricordato, che la nostra presenza nel continente dura da decenni, ma è altrettanto vero che non sempre la gestione è stata virtuosa quando è stata pubblica, o ha lasciato effetti duratori provenendo da privati. L’altra grande novità, come accennato, riguarda le risorse energetiche: a palazzo Chigi vorrebbero che Roma diventasse un’unica porta d’accesso ai mercati europei del gas africano.

Rivendicando la continuità con una politica estera incentrata sull’approvvigionamento energetico, che parte appunto dall’Eni di Mattei, e che ha avuto al tempo dell’invasione della Ucraina da parte della Russia il suo punto di maggiore sviluppo con il premier Draghi. Di qui l’importanza di Paesi come l’Algeria, tradizionalmente nostro fornitore, ma anche quella della Repubblica del Congo, dove siamo interessati al ricchissimo giacimento di gas liquefatto; e quella del Mozambico, dove l’Eni gestisce una grandissima miniera. E poi c’è un’ambizione più segreta, ma che il nome del piano evoca senza ombra di dubbio. Ripensando alla rivalità franco-italiana nel Maghreb degli anni ’50 (Mattei era accusato dai francesi di finanziare la guerra di indipendenza), l’Italia potrebbe ambire a prendere il posto della Francia laddove i governi locali, più o meno violentemente, la stanno spingendo fuori dal continente. Certo, fra Cina, Russia e Turchia che premono da ogni parte, non dovrebbe essere un’impresa facile, ma hai visto mai, sognano a palazzo Chigi.

E gli africani? Cosa ne pensano di tutto questo attivismo del governo italiano? Poco o niente. Al vertice Italia-Africa, riunito a Roma a fine gennaio scorso, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, espresse tutta la sua freddezza nei confronti dell’iniziativa dichiarando di essere deluso soprattutto dal fatto che nessuno dei governi africani fosse stato consultato per un piano che era dedicato all’Africa.

Insomma, al netto della stima per il Paese e per la premier in carica, ancora una volta venivano prese decisioni “per” l’Africa e non “con” l’Africa.

Riflesso colonialista? Forse un tantino, aveva lasciato intendere Faki.

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