IL RAPPORTO DRAGHI E IL TEMPO BREVE DELL'EUROPA

Sappiamo che Mario Draghi ha accettato nel settembre scorso l’incarico dalla presidente della Commissione europea di elaborare un Rapporto sulla competitività europea. Da allora ad oggi sono passati pochi mesi, ma è chiaro che il “Rapporto Draghi” non sarà l’ennesima enfasi sulla microconcorrenza nel mercato unico europeo, ma un programma sulla macrocompetizione nella geoeconomia, che è anche geopolitica.

Due recenti interventi programmatici: Mario Draghi e Ursula von der Leyen

Questo è apparso molto chiaro nei giorni scorsi sia per un intervento pubblico di Mario Draghi del 16 aprile, sia per l’intervento di Ursula von der Leyen al Parlamento europeo del 23 aprile. Questi due interventi tracciano un programma non solo per la prossima legislatura europea (in cui la presidente della Commissione spera di essere confermata), ma anche per un cambiamento economico strutturale della Ue e della Eurozona per recuperare il ritardo rispetto a Usa e Cina. È molto probabile che Draghi presenti il suo Rapporto dopo le elezioni europee e in prossimità del Consiglio europeo del 27 e 28 giugno, nel quale si delineeranno anche le nomine apicali della Commissione e del Consiglio stesso. È evidente che il Rapporto Draghi avrà un ruolo importante anche a tali fini. Ciò è sperabile perché questo rapporto, per quanto è emerso nella conferenza di Draghi del 16 aprile, rappresenterebbe "l’entrata" della Ue e della Eurozona nel XXI secolo dopo i due travagliati decenni iniziali aggravati dalla crisi finanziaria, dalla pandemia e da guerre. Consideriamo allora alcuni pilastri del Rapporto come emersi nella citata conferenza

L’Europa dalla micro alla macro dimensione

Draghi ha argomentato che l’impostazione politica ed economica su cui la Ue ha operato per decenni è diventata obsoleta perché la geoeconomia e la geopolitica sono cambiate. Tre sono i punti cruciali del suo ragionamento: perché il modello europeo è superato; qual è il modello da adottare; come arrivarci. La sua conclusione è che il tempo si è fatto molto breve in quanto l’enfasi sul  mercato interno e sulla microconcorrenza non basta quando gli altri poli della geopolitica e della geoeconomia competono per innovazioni e dimensioni sullo scenario mondiale. Ciò che colpisce molto nell’intervento di Draghi è l’accento sulla necessità di una dimensione globale delle imprese o meglio delle strutture e della infrastrutture delle tecnoscienze, della transizione energetica e ambientale, della difesa. È una impostazione su cui dovrebbe fondarsi a livello europeo una politica economica strutturale anche con riforme istituzionali per andare verso macrodimensioni.

Perché il modello europeo è superato

Per Draghi la Ue ha avuto un focus che si è molto indebolito negli ultimi due decenni, perché l’economia europea ci ha dato una certa tranquillità con una buona crescita e con bilance commerciali positive rese possibili -aggiungo- anche da energia importata e catene di subforniture esterne a basso costo. La concorrenza intraeuropea e la qualità dei prodotti sono state utili anche per le esportazioni. Draghi afferma così che “... ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”. 

Due sono le sue successive valutazioni e proposte che ovviamente in parte interpreto. La prima è il confronto su quanto stanno facendo i due macropoli dell’economia mondiale e cioè Usa e Cina. La seconda è un progetto per l’Europa che richiede grandi dimensioni di investimenti unificati con un maggiore intervento pubblico sia come attore sia per il coordinamento e l’incentivazione. 

I due macropoli della geoeconomia: Cina e Usa

Circa il confronto con Usa e Cina, Draghi rileva che le loro politiche "nella migliore delle ipotesi" - un evidente eufemismo - "sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, sono progettate per renderci permanentemente dipendenti da loro". La nettezza con cui Draghi descrive questi due scenari in atto è impressionante e vanno citati: 

"La Cina, ad esempio, mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l'accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell'offerta sta portando a un significativo eccesso di capacità in molteplici settori e minacciando di indebolire le nostre industrie". 

"Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all'interno dei propri confini - compresa quella delle aziende europee - mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento". 

L’Europa manca di una strategia

Draghi precisa questa affermazione su tre casi ai quali sottendono sia le dimensioni industriali, sia le fragilità europee nella normativa, nei sussidi e nelle politiche commerciali rispetto a quelle adottate da Usa e Cina.

Il primo caso riguarda la sfida delle nuove tecnologie, che a mio avviso andrebbero meglio denominate tecnoscienze, dove il ritardo su Usa e Cina è enorme a causa anche di fattori dimensionali. Draghi rafforza tale valutazione con riferimento all’industria per la difesa dove solo quattro imprese globali europee si collocano tra le prime 50 a livello mondiale. 

Il secondo caso riguarda le industrie ad alta intensità energetica. Negli altri poli della geoeconomia i costi energetici sono più bassi, ma anche gli oneri normativi sono minori ed infine, in alcuni casi, vi sono “massicci sussidi”. Aggiunge Draghi che “senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell'Ue”.

Il terzo caso riguarda la “agenda climatica ambiziosa” dell’Europa. Ma mentre i due geopoli citati controllano molte delle risorse necessarie a tali fini, l’Europa non ha "un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica”. 

In conclusione Draghi afferma che l'Ue deve puntare “su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull'Ue; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deeptech e nel digitale”.  A tali fini Draghi preannuncia che il suo Rapporto Finale esaminerà 10 di questi “macrosettori  dell'economia europea".

Tre strategie per recupere gli euro-ritardi

Draghi conclude la sua analisi presentando tre “filoni comuni per gli interventi politici”. Espressione questa che evidenzia anche tutta la rilevanza istituzionale del suo Rapporto. Il primo intervento è sulla “scalabilità”, per arrivare a dimensioni geocompetitive di impresa in alcuni settori come difesa e telecomunicazioni. Il secondo intervento riguarda i “beni pubblici” con riferimento ai quali rileva che il non coordinamento intraeuropeo riduce l’efficienza degli investimenti. Il terzo intervento riguarda l’approvvigionamento delle materie prime di cui l’Europa è fortemente deficitaria e  priva di una “politica estera” comune.

Draghi dalla economia monetaria a quella reale

Draghi è stato presidente della Bce, ma con questo rapporto si concentra pienamente sull'economia reale, nella consapevolezza che senza una politica economica, industriale e tecnoscientifica la Ue e l'Eurozona non reggeranno le sfide del XXI secolo. Egli conclude il suo intervento affermando che “avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri - una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità europea del carbone e dell'Acciaio”. È un richiamo importante con due aggiunte. E cioè che 70 anni fa furono creati anche “Euratom” (Comunità europea per l’energia atomica) e Bei (Banca europea per gli investimenti). Due potenti e innovativi enti funzionali uno per l’energia e l’altro per gli investimenti che sono modelli per rinnovare adesso la spinta innovativa e unitaria del progetto europeo.

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