PIANO MATTEI, UN PATTO NORD-SUD PER SOSTITUIRE LA RENDITA E SALVARE LA COESIONE SOCIALE

Venne l’invasione, poi l’esplosione dei tubi del gas, poi il gas che ad agosto 2022 costava dieci volte quel che costava l’anno prima. E tutti all’improvviso a ricordarci che ci eravamo dimenticati della sicurezza energetica e di quanto ci giocassero gli idrocarburi. Ci cullavamo nell’abbondanza e ci siamo ritrovati in scarsità. E però non esageriamo. Il problema con gli idrocarburi non è la loro scarsità: sono i tempi necessari a metterli in produzione e a costruire le necessarie infrastrutture (soprattutto per il gas). Nei prossimi due anni, ad esempio, dovrebbe andare in funzione una nuova capacità di liquefazione del gas che da previsione potrebbe rendere definitivamente superfluo il gas russo che ci arrivava via tubo. Per il prossimo inverno dovremo ancora un po’ confidare nel clima e nella Cina, ma per quello dopo dovremmo stare – da previsione corrente – abbastanza tranquilli. Anche in presenza di un trauma come l’invasione della Crimea il problema della sicurezza si sta ponendo come problema contingente e non come strutturale.

È schizzato il prezzo del gas ma non (o pochissimo) quello del petrolio. Il petrolio e adesso anche il gas viaggiano via mare, e non hanno vincoli predeterminati di destinazione (il gas che viaggia per tubo può andare solo dove lo porta il tubo, mentre quello che viaggia via nave può andare ovunque lo porti il prezzo).

La crisi è contingente nel senso che con il mercato che può galleggiare dura per i tempi di rimpiazzo del tubo venuto a mancare. La sicurezza, però, dovremmo anche declinarla con le lenti dei produttori. I principali vivono in buona misura di rendita da esportazione di risorse naturali (per quel che qui interessa prevalentemente idrocarburi), laddove per “rendita” si intende la quota nazionale di PIL derivante da tale esportazione. Il problema qui è che la decarbonizzazione, se saremo seri nell’attuarla, revocherà in dubbio per questi produttori la sicurezza del vendere, anche in casi estremi più che dimezzandone il prodotto interno lordo. I dati della World Bank riferiti al 2021 pongono la quota di rendita sul PIL della Libia al 61%, quella irachena al 43,4%, quella della Repubblica del Congo al 37,7%, quella dell’Angola al 30% e quella dell’Algeria al 22,6% (le percentuali si riferiscono all’intera rendita da esportazione, inclusi legname e minerali, ma i paesi qui di riferimento sono comunque a rendita più che prevalentemente petrolifera). Due osservazioni. La prima è che i paesi che ho citato non sembrano essere stati capaci di evolvere dalla rendita petrolifera a un qualche modello di sviluppo alternativo o almeno parallelo (sindrome che in parte si estende anche alla Russia, che con il suo 18,5% di rendita sembra prigioniera di un modello energivoro che in questi anni l’ha resa un paese in via di inviluppo).

La perdita della sicurezza del vendere, se non si trovano alternative, potrebbe avere conseguenze esplosive nei paesi a maggior grado di dipendenza. Pensiamo all’Italia. Che succederebbe al nostro welfare se di colpo ci ritrovassimo col 61% di PIL in meno? E non basterebbe forse un taglio del 22,6% (quota Algeria) a far esplodere i nostri equilibri sociali? Il tema ci tocca direttamente. Se domani finisce la rendita, i suoi orfani non potranno che cercare salvezza altrove. L’implosione della rendita non può che generare esplosione dell’emigrazione. L’orfano, di necessità, si farà migrante petrolifero. È una partita che in ultima istanza si giocherà nella capacità dell’Occidente (e Cina) di aiutare con finanziamenti e investimenti gli attuali titolari di rendita in generatori di ricavi produttivi e di altra fonte.

In Italia si parla, a proposito, di un Piano Mattei. Troppo presto per vederne definite le forme e i contenuti e dunque per giudicare. Per ora l’unica certezza è che il Piano Mattei non è opera di Mattei, e il resto solo si intravvede. Buona parte dei paesi della rendita che ho elencato sono citati tra le parti che vi sarebbero coinvolte. Il Piano rispetto a questi paesi potrebbe prendere di fatto due dimensioni. Una è la dimensione della sicurezza de Noantri, insomma di accordi tutti incentrati sull’importazione in Italia di idrocarburi (e magari di minerali critici) a cui magari accompagnare qualche simbolico contributo in natura preferibilmente in forma fotovoltaica o assimilata. La seconda è quella della sicurezza (anche) loro. Aperture dirette di credito e/o stimoli al nostro sistema imprenditoriale (incentivi fiscali, garanzie SACE) finalizzati alla crescita di un modello di sviluppo progressivamente sostitutivo della rendita.

Il primo modello da solo non mi attrae. Il secondo – intrecciato col primo o addirittura predominante – potrebbe invece essere l’embrione di un nuovo modello di cooperazione Nord/Sud, magari estendibile a livello europeo. Mi si obietterà che, mancando moneta da investire qui, quella che c’è non ha senso spendersela (anche) altrove. E invece no. Senza supporto al suo attuale paese di residenza il migrante petrolifero di massa ti diventa certezza. E potrebbe essere solo l’avanguardia. Mettete due gradi in più e la fascia subsahariana potrebbe finire di desertificare e vaste superfici iperpopolose del Sud Est asiatico arrivare al limite della non abitabilità. Finanziarne l’adattamento dovrebbe essere priorità dei beati possidentes. Un grande patto Nord/Sud per dare alternativa alla rendita e per favorire l’adattamento al clima che cambia, e l’Italia che ne è parte. Non è filantropia, non è buonismo, non è terzomondismo velleitario. È egoismo. È condizione di salvezza della nostra coesione sociale. È politica.

Massimo Nicolazzi – *Professore di Economia delle Fonti Energetiche all’Università di Torino

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